In Italia, se punti tutto sullo studio diventi uno schiavo a tempo indeterminato
In Italia, non di rado, se punti tutto sullo studio ti ritrovi a essere uno “schiavo a tempo indeterminato”, e la situazione è così drammatica che le possibilità sembrano solo due: o andare via, infoltendo la lista dei cervelli in fuga, o restare e pensare di impegnare il proprio tempo e le proprie energie in qualcosa di diverso dallo studio. Qualcosa di più “produttivo”, che ti allontani dalla triste prospettiva di essere un plurilaureato che, a quaranta o più anni, dipende ancora da mamma e papà. L'articolo In Italia, se punti tutto sullo studio diventi uno schiavo a tempo indeterminato proviene da THE VISION.
Nella Satira dei mestieri, testo in egiziano antico oggi conservato al Museo egizio di Torino, Zaru spiega al figlio Pepi i motivi per cui sarà meglio che studi e che diventi uno scriba, professione che, al tempo, garantiva agli egizi un prestigio sociale superiore a qualsiasi mestiere manuale o fisico. È proprio Zaru a sottolineare, nel testo, quanta fatica fisica e quanti disagi recherebbe al figlio qualsiasi altro lavoro: se farai il fabbro, gli dice, puzzerai peggio delle uova del pesce; se farai il muratore, sarei esposto alle intemperie, al vento e alle frustrate del padrone; se diventerai carpentiere, non porterai a casa cibo sufficiente per i tuoi figli. Zaru prosegue descrivendo i disagi di qualsiasi mestiere manuale del tempo per argomentare la propria tesi, secondo la quale se il figlio deciderà di studiare, avrà di fronte a sé un futuro di maggiore agio. Benché le descrizioni di Zaru siano iperboliche, sono in grado di restituire un’immagine dello studio e dell’impegno intellettuale come viatici per una vita con meno oneri e di maggiore prestigio. Immagine che ad oggi, nel nostro Paese, è completamente sparita.
Don Lorenzo Milani, alla metà del secolo scorso, diceva che “l’operaio conosce cento parole, il padrone mille, ed è per questo che lui è il padrone”; non è trascorso chissà quanto tempo, eppure si fa a faticare a riconoscere la realtà socio-culturale contemporanea dell’Italia in queste parole. Oggi, in Italia, investire su un percorso di studi lungo e approfondito, in qualsiasi campo, non equivale quasi mai alla promessa di un futuro solido, stabile, men che meno di un certo riconoscimento sociale. I laureati, anche quelli d’eccellenza, nel nostro Paese ricevono spesso un trattamento economico – e non solo – per nulla commisurato alle proprie competenze, ai tanti anni di impegno e fatica, alle energie e risorse economiche investite. In Italia, non di rado, se punti tutto sullo studio ti ritrovi a essere uno “schiavo a tempo indeterminato”, e la situazione è così drammatica che le possibilità sembrano solo due: o andare via, infoltendo la lista dei cervelli in fuga, o restare e pensare di impegnare il proprio tempo e le proprie energie in qualcosa di diverso dallo studio. Qualcosa di più “produttivo”, che ti allontani dalla triste prospettiva di essere un plurilaureato che, a quaranta o più anni, dipende ancora da mamma e papà.
Tutto ciò ha inevitabili ricadute sul profilo culturale e intellettuale del nostro Paese. Meno di un mese fa, una ricerca dell’Ocse ha decretato ciò che sappiamo da tempo: in Italia, una persona su tre, nella fascia d’età tra i 16 e i 65 anni, non capisce ciò che legge, ha estrema difficoltà a risolvere quesiti logico-matematici e anche col problem solving. Rispetto a una decina di anni fa, la situazione non è affatto migliorata e gli italiani si collocano di gran lunga sotto la media europea: si stima che le competenze linguistiche e logiche di un laureato italiano siano inferiori rispetto a quelle di un diplomato finlandese. Un quadro che rispecchia appieno la linea di un Paese che, quando c’è da tagliare la spesa pubblica, sacrifica per primi i settori dell’istruzione e della cultura, come se questi fossero appunto “sacrificabili” senza che ci siano ripercussioni concrete sul benessere di tutti. Sembra che ci stiamo abituando, addirittura “affezionando”, alla narrazione secondo cui, da tempo, saremmo “i più ignoranti d’Europa”, ma per provare ad arginare questa deriva bisognerebbe innanzitutto comprenderne le cause profonde. E per provare a individuarle possiamo rifarci alla cosiddetta “teoria dell’apprendimento latente” dello psicologo statunitense Edward Tolman.
Nell’ambito del neocomportamentismo novecentesco, Edward Tolman studiò le relazioni tra apprendimento e prestazione e dimostrò, con un esperimento, che gli individui non mettono a frutto le proprie conoscenze e competenze – pur avendole precedentemente acquisite e sviluppate – se non hanno la consapevolezza che metterle a frutto porterà loro un vantaggio concreto. L’esperimento fu effettuato su alcuni gruppi di topi, osservandone il comportamento in circostanze diverse, e i risultati furono poi applicati ed estesi al comportamento degli esseri umani. Tolman collocò in particolare tre gruppi di topi, a turno, in tre scatole uguali, con all’interno un labirinto dal quale i topi dovevano riuscire a venir fuori ogni giorno. Per i topi del primo gruppo era prevista una ricompensa alla fine del percorso, per il secondo gruppo non v’era alcuna ricompensa, mentre al terzo gruppo si decise di somministrare una ricompensa solo dopo l’undicesimo giorno di esperimento. L’esito fu curioso: i topi del primo gruppo riuscirono fin da subito a trovare facilmente l’uscita; quelli del secondo incontrarono sempre grosse difficoltà; quelli del terzo, invece, mostrarono difficoltà all’inizio, per superarla con grande facilità una volta che la ricompensa cominciò a essere somministrata. Si arrivò così a una conclusione: tutti i topi sviluppavano, fin da subito, delle mappe mentali “in potenza”, che avrebbero permesso loro di uscire dal labirinto; ma le rendevano operative, cioè le utilizzavano effettivamente solo dopo aver compreso che, al termine del percorso, avrebbero trovato la loro ricompensa – quella che la teoria comportamentista definisce “rinforzo”.
In seguito Tolman ha formulato la teoria dell’apprendimento latente e, applicandola al comportamento umano, ha dimostrato che moltissimi di noi acquisiscono conoscenze, abilità e competenze nel proprio percorso di studi e nel corso dell’esistenza. Detto ciò, non è detto che questo bagaglio culturale ed esperienziale venga poi messo a frutto sistematicamente, e ogni volta che all’individuo si richiede una prestazione. Per far sì che l’apprendimento latente si tramuti in azione concreta e osservabile – o in qualche modo rilevabile, valutabile – è necessario che questi venga stimolato da un obiettivo concreto che funga da rinforzo/ricompensa, e che lo sproni a mettere in atto le competenze maturate. Applicando questa teoria a ciò che accade nel nostro Paese, potremmo concludere questo: sappiamo ormai che, in Italia, studiare e mettere in atto ciò che abbiamo appreso frutterà poco o nulla in termini di riconoscimento sociale, nonché di indipendenza e stabilità economica – e magari, per conseguenza, anche affettiva ed esistenziale – e per questo lasciamo che le nostre conoscenze rimangano inutilizzate. Molti di noi potrebbero dunque essere colti e competenti in potenza, ma ignoranti in atto, poiché riteniamo che non sia in alcun modo utile e produttivo mettere a frutto ciò che sappiamo.
Ormai da molto tempo l’Italia è tra i Paesi europei con la più bassa media di occupazione tra i neolaureati. Tra eterni stage retribuiti male o per nulla, contratti precari e stipendi spesso da fame, in ogni caso non commisurati alla costante inflazione, viene da chiedersi se valga la pena continuare a investire sullo studio e sulla propria formazione professionale, sapendo di essere già destinati a una vita di stenti e senza prospettive di stabilità. Il riconoscimento sociale e il prestigio passano anche per un tenore di vita adeguato, per una retribuzione e una solidità, prima di tutto economica, che consentano di fare progetti a medio-lungo termine. Ma oggi sono ancora troppo pochi i laureati italiani a potersi permettere tutto questo, ed è per questo che una lunga carriera universitaria inizia a sembrare ad alcuni un dispendio di energie e di risorse inutile e, d’altro canto, anche chi completa gli studi non è motivato in alcun modo a rendere operativo ciò che ha imparato.
La teoria dell’apprendimento latente di Tolman – che ha gettato le basi per ulteriori studi sul tema dell’apprendimento, sul neocomportamentismo e nella ricerca psicopedagogica – ha dimostrato che ciò che abbiamo appreso e che rimane, inutilizzato, nel nostro bagaglio culturale ed esperienziale, può essere messo a frutto laddove intervenga uno stimolo adeguato. Se vogliamo che il nostro Paese torni a essere competitivo sul piano culturale e intellettuale, dobbiamo restituire dignità – in termini di prestazioni adeguatamente retribuite, di stipendi adeguati, di contratti più stabili – a chi decide di trascorrere buona parte della propria giovinezza, e spesso anche dell’età adulta, a studiare e a formarsi per essere competente nel proprio settore professionale ma, soprattutto, per essere una persona e un cittadino consapevole.
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