Il paradosso della conservazione: chi si preoccupa delle specie aliene?
Le specie aliene rappresentano una minaccia per la biodiversità globale. Alcune però sono a loro volta in pericolo di estinzione nelle aree da cui provengono. Un paradosso conservazionistico. È giusto proteggerle?
Ci siamo già abituati a vederli da queste parti: pappagalli verdi, ratti neri, scoiattoli grigi, mufloni. Sono solo alcune delle specie animali aliene – cioè diffuse e ben stabilite in aree esterne alla loro zona di distribuzione originaria – così comuni da essere ormai naturalizzate in Europa. Così tanto comuni che tutti, scienziati compresi, pensavamo fossero abbondanti anche nei loro areali nativi. E invece no. Un nuovo studio, condotto dall’Università Sapienza di Roma e dall’Università di Vienna, pubblicato su Conservation Letters, ha dimostrato che su oltre 200 specie alloctone di mammiferi, ben 36 sono minacciate, anche gravemente, nei loro habitat originari. Per gli esperti è un vero paradosso della conservazione, che solleva un grande dilemma (etico e non solo): è giusto proteggere queste specie nei loro areali, nonostante il danno che possono arrecare altrove?
Le minacce causate dalle specie aliene
I numeri dello spostamento globale di specie sono impressionanti: si calcola che, solo contando i mammiferi, l’essere umano abbia introdotto 230 specie aliene in nuove aree del mondo, dove si sono stabilite in modo permanente. Secondo l’Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services (Ipbes), sono più di 37mila le specie immesse globalmente in areali non originari. E il tasso di introduzione arriva fino a 200 nuove specie ogni anno. La parabola delle specie aliene può essere crescente: dopo un periodo di adattamento, infatti, molte specie diventano invasive.
Questo succede quando riescono a riprodursi con tassi elevati e diventano addirittura prevalenti rispetto a quelle autoctone originarie dell’area. Per l’Italia è il caso della zanzara tigre, per esempio, o dei famigerati granchi blu, delle nutrie o delle testuggini americane, ormai impossibili da eradicare. Sempre secondo l’Ipbes, le specie aliene hanno anche un costo esorbitante per l’economia globale, stimato in ben 423 miliardi di dollari l’anno, spesi tra azioni di monitoraggio, prevenzione e riparazione dei danni. Ma soprattutto, come se non bastassero i problemi gestionali, le specie invasive sono tra le principali cause di perdita globale della biodiversità: i dati dei rapporti internazionali dimostrano che hanno contribuito al 60 per cento delle estinzioni di specie native registrate negli ultimi decenni.
Minacciate nel loro areale
Il nuovo studio, guidato da Lisa Tedeschi, del dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin dell’Università Sapienza di Roma, ha analizzato le distribuzioni, i percorsi di introduzione, le minacce e le strategie di conservazione di oltre 200 specie di mammiferi non autoctoni introdotte dall’essere umano e stabilite in modo permanente in giro per il mondo. I risultati sono stati sorprendenti: tra i 230 mammiferi alloctoni, 36 sono minacciati nel loro areale di origine. Il 17 per cento sono catalogati nella Lista Rossa della Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) come “in pericolo critico”, il 25 per cento come “in pericolo” e addirittura il 58 per cento considerati “vulnerabili”.
Il caso del cinopiteco
Un esempio emblematico di mammifero minacciato nel proprio areale originario è il cinopiteco (Macaca nigra o macaco crestato), la cui popolazione a Sulawesi, in Indonesia, è crollata dell’85 per cento dal 1978, ma è ancora molto diffusa e stabile su altre isole indonesiane.
E del coniglio selvatico
Un caso simile è quello del coniglio selvatico, in pericolo di estinzione in Europa, ma con popolazioni molto numerose in altre parti del mondo, come in Australia, dove in quanto a numerosità superano di gran lunga quelle europee. L’analisi ha dimostrato anche che la maggior parte delle specie minacciate nel loro areale si registra nelle regioni tropicali dell’Asia, dove la distruzione massiccia delle foreste pluviali e la caccia intensiva rappresentano le principali cause di perdita di biodiversità.
Il diritto di esistere delle specie aliene
Le previsioni non sono rosee, e la situazione è destinata a peggiorare se non diminuirà il tasso di deforestazione o non si troverà una soluzione alle conseguenze devastanti della crisi climatica in corso. I ricercatori hanno però voluto anche analizzare l’influenza delle popolazioni “straniere” sullo stato di conservazione di una specie. “Abbiamo rivalutato – si legge nel paper – l’ipotetica categoria di Lista Rossa Iucn di ogni specie, includendo anche la parte aliena dell’areale”. Nel valutare il rischio di estinzione globale delle specie, infatti, attualmente non vengono considerate le popolazioni che vivono al di fuori dell’areale nativo. Una pessima idea, perché l’inclusione delle popolazioni aliene ha migliorato le categorie di rischio di estinzione per otto (cioè il 22 per cento) dei 36 mammiferi minacciati. I cambiamenti più significativi si sono verificati per le specie che hanno saltato due o più livelli delle categorie Iucn, come nel caso del coniglio europeo (Oryctolagus cuniculus), passato da En (minacciato) a Lc (a rischio minimo), del cervo di Giava (Rusa timorensis) e del cervo di Sambar (Rusa unicolor), entrambi passati da Vu (vulnerabile) a Lc.
Per queste e altre specie, le popolazioni aliene che vivono lontano da casa possono quindi fungere da riserva per future azioni di conservazione, che potrebbero evitare l’estinzione in caso di frammentazione dell’habitat o di gravi cambiamenti climatici. Il macaco di Barberia (Macaca sylvanus) ad esempio sta subendo un rapido declino della popolazione in Algeria a causa della siccità, e la popolazione aliena potrebbe rappresentare una roccaforte per la conservazione. Un’arca della vita che non possiamo permetterci di perdere.
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