Essere artisti oggi è un lusso per pochi. Servono salari adeguati, non pagamenti “in visibilità”.
Secondo il report “Vita da artisti” realizzato dalla Fondazione Di Vittorio con il supporto di Cgil-Slc, i lavoratori dello spettacolo in Italia sono 137mila e vengono pagati come media annuale intorno ai 5mila euro. Questo riguarda attori, concertisti, orchestrali, cantanti, ballerini e tanti altri uomini (55%) e donne (45%) che tentano di “campare d’arte”. Senza riuscirci. Considerando che il 71% di questa categoria ha meno di 45 anni, si tratta di una platea giovane a cui vengono tarpate le ali sul nascere. L'articolo Essere artisti oggi è un lusso per pochi. Servono salari adeguati, non pagamenti “in visibilità”. proviene da THE VISION.
Per anni è stata attribuita all’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti la frase “Con la cultura non si mangia”. Dopo più di un decennio in cui questa citazione è stata giustamente usata per certificare il declino culturale avallato dal berlusconismo, Tremonti ha deciso di smentire tutti rinnegando la paternità di quella frase. La pezza è stata però peggiore del buco, visto che ha aggiunto: “Premesso che felice o no l’espressione non è mai stata mia, considerando l’uso che ne viene fatto oggi da tanti giganti della cultura, d’ora in avanti dirò che con la cultura mangiano in troppi”. È ovviamente una frase fuori da ogni logica, nonché svalorizzante della categoria degli artisti, quella che arranca tra incertezze e precariato e che sta venendo divorata non soltanto dalle scarse garanzie dei governi, ma anche dalle nuove piattaforme e dalle tecnologie pronte a usare i lavoratori dell’arte come bestie da soma del capitalismo o addirittura sostituirli dalle macchine. Spesso anche dall’altra parte, ovvero a sinistra, certe battaglie sono state più ideologiche che concrete. Possono esserci tutti gli attestati di stima e le pacche sulle spalle, la verità incontrovertibile è soltanto una: gli artisti vanno pagati.
Nel corso degli anni non sono mancati scioperi e manifestazioni, accompagnati però da uno scetticismo fuorviante dovuto alla presenza in prima fila di attori o musicisti famosi, e dunque mediamente benestanti. Ciò che spesso viene ignorato è il loro ruolo da megafono per chi non ha la loro fortuna, pur praticando lo stesso mestiere, o per chi lavora nell’arte dietro le quinte con stipendi decisamente inferiori. Basti pensare al report Vita da artisti realizzato dalla Fondazione Di Vittorio con il supporto di Cgil-Slc, dove viene spiegato che i lavoratori dello spettacolo in Italia sono 137mila e vengono pagati come media annuale intorno ai 5mila euro. Questo riguarda attori, concertisti, orchestrali, cantanti, ballerini e tanti altri uomini (55%) e donne (45%) che tentano di “campare d’arte”. Senza riuscirci. Considerando che il 71% di questa categoria ha meno di 45 anni, si tratta di una platea giovane a cui vengono tarpate le ali sul nascere. Per ogni Elio Germano ci sono migliaia di attori sfruttati a un passo dalla soglia di povertà; per ogni Mahmood ci sono migliaia di cantanti che versano alla SIAE ogni anno più di quanto guadagnano e che ricavano da Spotify meno che le briciole.
Fin qui potrebbe sembrare la fiera della retorica e del populismo culturale: è chiaro che non tutti gli artisti debbano e possano avere la stessa retribuzione, rientrando comunque in un mercato e parametrando gli introiti in base all’effettivo successo in termini di visualizzazioni, ascolti e altri riscontri numerici. Ciò che va contestato sono però le modalità della retribuzione, soprattutto in un mondo che ha virato già da parecchio sul digitale. Partendo dal mondo della musica, è risaputa la crisi del mercato discografico e la transizione tecnologica che ha fatto sparire i vecchi formati usati per ascoltare, per esempio, un album. I CD fisici sono scomparsi, ormai anche le nuove automobili o i computer non vengono più concepiti con la funzione di un disco da inserire da qualche parte. Le copie vendute si sono trasformate in ascolti digitali, e con esse anche i riconoscimenti. Penso al disco d’oro, originariamente ottenibile in seguito alla vendita di un milione di copie fisiche, scesa fino alle 25mila copie nel 2014 e, adesso, a 2,5 milioni di ascolti online sulle piattaforme come Spotify e affini.
Se un tempo con un disco d’oro potevi campare di rendita per diverse generazioni, oggi la situazione è parecchio diversa. Il calcolo esatto del pagamento delle piattaforme streaming per ogni ascolto non è ufficiale perché varia in base ai tipi di royalty, agli accordi con le case discografiche e gli editori, ma la media per ascolto si assesta sui 0,007 euro. Questo significa che raggiungere il prestigioso traguardo del milione di ascolti di un brano frutterà un’entrata stimabile sui 7mila euro. E, chiaramente, solo una percentuale minuscola degli artisti sulle piattaforme raggiunge il milione di ascolti. Uno stesso artista che riesce ad arrivarci, guadagna più con il cachet di un singolo concerto che con il pagamento del brano da parte delle piattaforme digitali. Facendo un po’ di proporzioni, è facile intuire come gli artisti con numeri rispettabili – dunque un brano con circa 20mila ascolti – con la cifra guadagnata potranno a stento pagarsi l’abbonamento annuale alla stessa piattaforma che li paga.
In merito è stata realizzata una ricerca dall’Università Cattolica del Sacro Cuore insieme alla società ITSRIGHT, che gestisce i diritti di più di 170mila artisti. Il risultato mostra come il 79% degli artisti non guadagni nulla o somme irrisorie dallo streaming. Hanno dichiarato di sentirsi delle comparse in un ecosistema che vede arricchirsi tutti tranne loro, considerando i ricavi enormi delle piattaforme e l’assenza di una redistribuzione equa dei ricavi. Anche fuori dal digitale, e forse ancor di più, la crisi del settore è palpabile. Negli ultimi anni sono stati indetti diversi scioperi dei lavoratori dei teatri lirici, con prime disertate e riversamenti nelle piazze per musicisti che non vengono pagati abbastanza. Hanno fatto lo stesso i lavoratori del mondo del cinema, tra attori, registi, sceneggiatori e tecnici. Non è un fenomeno che riguarda soltanto l’Italia, visto che recentemente Hollywood ha vissuto due scioperi imponenti. Il primo per i salari bassi, il secondo per il fallimento delle trattative sulla regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale, ovvero lo spettro che rischia di minare il futuro di milioni di artisti in tutto il mondo.
Le nuove tecnologie non sono il male, e rinchiudersi nel guscio del luddismo non è di certo la soluzione per affrontare la tematica. È però vero che le istituzioni internazionali si sono fatte trovare impreparate di fronte al proliferare dell’IA. Gli interventi sono ancora incerti e poco chiari, e alcune branche dell’arte vengono penalizzate fino alla perdita del lavoro. Fotografi, illustratori e grafici devono combattere quotidianamente con un’entità invisibile pronta a sostituirli. Oggi un’immagine può essere generata in un nanosecondo bypassando la manualità dell’artista. Ancora il lavoro “della macchina” è riconoscibile, quasi rudimentale, ma giorno dopo giorno si sta affinando sempre di più, con il rischio di cancellare la differenza tra l’opera umana e il prodotto dell’IA.
Non che prima queste categorie se la passassero meglio. Erano già lavoratori sottopagati, precari alla ricerca di un contratto a tempo determinato o di una commissione per una fotografia o un’illustrazione. Forse però la vera onta, la stessa che li accomuna ai musicisti, agli attori e ad altri artisti, va fuori dai binari del compenso economico e risiede nella considerazione generale – dai papabili datori di lavoro al cittadino medio. Ovvero non ritenere “un lavoro vero” il loro mestiere, definirlo un passatempo, un vezzo, una passione parallela. È una ristrettezza culturale che in Italia – in teoria la nazione dell’arte – si sente più che in gran parte dell’Europa, dove il lavoro dell’artista viene riconosciuto come tale, conferendogli dignità e paghe adeguate. In Italia questi ruoli vengono invece sviliti; si chiede a una violoncellista d’orchestra quale sia il suo vero lavoro, a un attore di teatro cos’altro faccia per arrotondare, quasi come a considerare il loro mestiere un gioco momentaneo. Non vengono dunque riconosciuti i sacrifici che ci sono dietro, gli anni di studio, di aggiornamento, di pratica e le continue sfide in un territorio ostile per chi d’arte non dovrebbe solo “mangiare”, ma anche vivere pienamente con il riconoscimento sociale che merita.
Il concetto di gratuità applicato all’arte è pericoloso perché collegato al vincolo dell’ineluttabile. Si sta creando la tendenza a credere, infatti, che sia nella norma la fruizione di qualsiasi forma d’arte senza che all’artista venga riconosciuto un compenso. È una forma di pirateria legalizzata a tutti gli effetti. Agli albori del nuovo millennio scaricare su Emule un disco o un film era un infrangimento consapevole della legge, mentre oggi non c’è nessun divieto che impedisca di ascoltare una canzone su Youtube o su Spotify, per cui il senso di colpa è stato cancellato dall’illusione che siano le piattaforme a pagare gli artisti. Siamo arrivati al punto di non ritorno dell’arte che dalla mercificazione è giunta alla macellazione, al mattatoio finale dove ogni contenuto viene reso prodotto da filiera senza tener conto della provenienza, del lavoro dietro. È doveroso quindi considerare l’arte un bene primario, e per far sì che questo accada bisogna rimodulare il ruolo dell’artista nella società a partire dalle basi, perché una Repubblica fondata sul lavoro che ignora i lavoratori è un controsenso deleterio per tutti.
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